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L'isola

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giap7
view post Posted on 29/7/2018, 12:33




Mentre il traghetto avanza dentro l’acqua turchese, lentamente si svela, mimetizzata dalla vegetazione rada di licheni e ginepri, la sagoma allungata della villa.
Il mio compagno sporge il viso nella direzione che gli indico, strizza gli occhi, si toglie e ripulisce le lenti, ma è chiaro che ancora non riesce a vederla.
- Dovete guardare cinque metri sopra la frana della scogliera, dico.
- Vedete, s’innalza in mezzo a quella chiazza di mirtilli del medesimo colore della pietra locale.
Accenna ad un sorriso:
- Ora la vedo, dice.
Nemmeno io saprei distinguerla se non avessi l’occhio addestrato: è stata concepita per l’invisibilità, come i camaleonti.
Pietra grezza ed incolore come la nostra terra, dico a me stesso.
Il mio compagno non ha più di trent’anni e studia alla scuola di cinematografia di Berlino Est; per lui questo è un pellegrinaggio.
Per me è invece il quinto viaggio primaverile a trovare un amico esiliatosi su quest’isola, che non risponde al telefono e le cui opere vengono tuttora proiettate e discusse allo Sweden Istitut di Stoccolma.
Mentre il piroscafo compie la manovra per aggirare il promontorio sorvegliato dalle moli dei faraglioni che noi chiamiamo raukar, faccio a tempo a distinguere la fioritura dell’albicocco che piantai assieme al Maestro alcuni anni fa: l’unica nota di colore assieme ai bagliori riflessi dalla serra.
Mentre strepitano gli argani che adagiano la poppa sulla banchina mi sorprendo a sperare che anche questa volta le previsioni del dottore vadano deluse.
- Non resisterà, aveva detto.
- Tenetelo sotto controllo – aveva aggiunto- perché la solitudine può scompensarlo all’improvviso.
Ma la signora Ulman, cui avevo affidato l’incarico dei sopralluoghi, con la scusa di rifornirlo di uova di quaglia selvatica, m’aveva telefonato solo 3 volte, e solo per rassicurarmi:
“ Incominciamo a considerarlo il nostro monumento nazionale, ora che s’è rimpolpato e fatto crescere la barba”, le sue parole.
Infatti questo è il quinto anno di vita sull’isola del mio amico e ancora nulla di quanto paventato dal medico s’è avverato.
Ricordo lo sguardo del dottore mentre gli riferivo delle visite e rispondevo alle domande.
Uno sguardo perplesso o, forse, addirittura incredulo.
Ma fino all’ultima viaggio, a settembre, la casa appariva in ordine, gli infissi lucidati, la serra ben tenuta e il Maestro non completamente dimentico del passato.
Anche se ogni volta mi chiede di mia moglie, morta da anni, e delle figlie che non ho mai avuto.
Ma per un uomo in là cogli anni e sopravissuto alle molte mogli, un uomo che vive solo da anni, non mi pare grave.
Mi risulta che sia lui stesso a ritirare il pacco che gli mandiamo ogni 2 settimane, facendosi aiutare da qualche giovanotto del paese per il trasporto.
Lo tengono tutti in gran considerazione, malgrado il caratteraccio originario.

Appena sbarcati io e il giovanotto che m’accompagna beviamo una birra alla Taverna dell’Aringa dove raccolgo le ultime informazioni che risultano incoraggianti: il Maestro è stato visto pescare calamari.
Poi, bagaglio leggero sulle spalle, c’incamminiamo verso la villa che non dista più d’un chilometro.
In certe sere di burrasca su questo sentiero ho assistito alla caccia dell’aquila di mare: il grumo bruno che dalla profondità del cielo ingrandisce sul mare: ecco il lampo candido del collare mentre artiglia il salmone.
In quei momenti ho rimpianto la mia condizione di visitatore occasionale.
Non esistono recinti né campanelli per farsi annunciare, per cui busso alla porta di pino abbrunito dalla salsedine, come sempre ho fatto.
Non c’è risposta, dunque entriamo; mai ho trovato la porta chiusa a chiave.
Grido il suo nome mentre attraversiamo la sala che s’allunga fino al retro della casa.
Alla sinistra si susseguono le vetrate che danno sul mare luccicante all’acciaio del tramonto.
Il mio compagno avanza come un devoto in un Sancta Sanctorum, minuziosamente contemplando i rari oggetti d’attorno.
Sulla tavola un pacco di riviste di note testate di critica cinematografica degli anni settanta.
Fra le altre un “Cinema nuovo” in lingua italiana che il Maestro apprezzava, malgrado il taglio Marxista, così lontano dalla sua ispirazione tormentata d’agnostico.
Sopra un caminetto gigantesco sotto la cui cappa è collocata una seggiola a dondolo, è appoggiato un teatrino corredato da marionette multicolori.
La casa è pulita, senza polvere sugli arredi. Non s’avverte il consueto odore di tabacco.
Prima di uscire sul retro, dove c’è la serra degli ortaggi, tento la porticina che so condurre alla sala di proiezione al piano sottostante ma, come sempre, mi resiste: l’unica porta invalicabile dell’intera casa; ma non ho mai chiesto di poter assistere ad una proiezione di una delle pellicole che il Filminstitute gli presta.
Lui è dentro la serra, inginocchiato a scavare buche dentro cui infila carotine filiformi e estenuate piante di cavolo.
Quando ci vede si alza con un movimento disinvolto, appoggiandosi appena con la cazzuola sul terreno, e ci viene incontro con lo sguardo che trascorre da me al mio accompagnatore.
Il ragazzo s’impappina in una complicata formula d’omaggio ma lui è già tornato indietro:
- Un ultimo tocco e sono tutto vostro.
Mostra un’accondiscendenza da ospite consumato: una dote evidentemente affinata di recente.
Innaffia le piantine appena trapiantate, ridispone le rimanenti dentro un canestro che ricopre di una pellicola trasparente.
Si alza, si lava le mani ad una fontanella e, infine, ci prende sottobraccio ed entriamo tutti in casa.
- Che bella sorpresa dice, seduti tutti e tre attorno al camino.
Non proprio una sorpresa, penso, visto le lettere che ci scambiamo durante l’inverno … ma mi si sta intrufolando in testa l’idea che stia recitando.
Beviamo la birra distillata da un vicino il cui compenso saprò solo in seguito.
Poco alla volta il mio compagno si libera della timidezza ed azzarda qualche domanda tecnica sulle Opere diventate celebri.
Inevitabile commentare la figura dell’attore che in età avanzata aveva accettato di rivestire la parte del vecchio medico, supponente e inacidito, che compie un viaggio in auto per andare a ritirare una onorificenza al termine di una gloriosa carriera d’insegnamento.
- Sì, Victor era un genio non solo come regista- dice.
- Si è calato nella parte come nessun altro avrebbe potuto. Un uomo molto colto e molto mite.
- Fu lui a prospettare l’idea, potentemente evocativa, delle piante di fragole a designare lo scampolo
di foresta da cui il protagonista assiste a scene della sua infanzia.
-Fu un dettaglio che fece un tale effetto sulla critica da indurla ad annettervi significati cervellotici.
Ride.
- La gente sembra ignorare che il cinema non ha nessuno, proprio nessun rapporto con la realtà effettuale; che non ha nulla di necessario e tutto d’inessenziale…
Noi pronunciamo tronfiamente la parola Realtà; ma codesta realtà non è altro che una schiava del caos, della disperazione e infine dell’inevitabile epilogo.
Il cinema non è che l’antidoto a questa schiavitù del reale.
Il cinema plasma un altro mondo, imprescindibile, direi inevitabile.

A suo tempo ci divertì perfino che nessun saputello mettesse in risalto l’inverosimiglianza che a queste latitudini possano crescere le fragole.
Ma ai critici queste inezie botaniche non interessano anche se ci sono davvero, le fragole intendo, dall’altra parte dell’isola, sotto la pineta.
Gliele mostrerò se avrà la compiacenza di tornare a trovarmi in agosto, giovanotto.
Mentre parla al ragazzo osservo, fuori dalla finestra, ondeggiare i tentacoli dei calamari che ha messo a disseccare su un filo, appuntandoli con le mollette da bucato.
Fantasmi cangianti, agitati dal vento, dietro lo schermo della finestra.
Ombre che s’agitano contro il cielo: cinema primordiale.
- Perché non ci proietti qualcosa? Dico all’improvviso.
Mi guarda dalla profondità turchina delle sue iridi.
- Certo, fa- ma prima dovete sottoporvi al test del calamaro in salsa d’acciuga.
Ride.

Ha cucinato in modo eccellente, s’è conversato allegramente, senza mai invocare gli assenti, né i figli o la schiera di femmine che hanno popolato il suo passato.
Come se il mondo sia solo l’attuale, senza ricordi, senza rimpianti.
Lo riferirò a Liv, al ritorno. Penso le sarà di conforto.
Del resto lo faccio ogni anno, ma per lettera.
Non come una volta, quando ci si dava appuntamento da qualche parte e le mostravo le foto del Maestro scattate di nascosto.
Poi ci fu quella maledetta gita in cui ero stato coinvolto, assieme alla ristretta schiera degli eletti.
Fino ad allora avevo frequentato l’ambiente degli sceneggiatori di seconda schiera, per film dal budget modesto, anche se continuavo a considerarmi un pittore.
Mi trovavo con alcuni colleghi della troupe che stava girando proprio su questa stessa isola quando irruppe nel locale proprio lui, il Maestro, in giaccone e basco francese.
Sbarazzò il tavolo dalle bevande e disse che gli era venuto in mente un’idea per la sceneggiatura : il taglio con cui dovevano venire ripresi i quadri d’argomento allucinato che il protagonista mostra alla moglie di notte, alla luce elettrica della casetta, e qualche altro particolare di questo tipo.
Aveva con sé un segmento di pellicola che srotolò contro luce per chiarire cosa intendesse.
Gli ero già stato presentato perciò mi sentii autorizzato, anzi mi sentii obbligato, a fare un’osservazione che mi pareva ineccepibile.
Lui mi stette ad ascoltare con un’attenzione che imbarazzò me per primo.
Mi fece alcune domande cui risposi in modo generico, invocando la mia ignoranza del set e delle condizioni di luce in quella data ora della giornata( in realtà filmava di giorno con l’aiuto di filtri).
- E’ libero domani? Mi chiese, e divenimmo amici.
Ma a Liv non piacevo per qualche ragione che non riuscii a capire fino al giorno della gita.
Ricordo i suoi occhi diventare del colore del ghiaccio e la sua schiena che s’allontanava.
Non ho mai avuto fortuna con le donne troppo belle.
So che lo è andata a trovare da sola ma deve essere finita male perché, dopotutto, è lei che mi telefona tutte le volte al mio rientro.

Finito di cenare si va, finalmente, al cinema: scendiamo la scala e ci troviamo in una piccola platea di poltroncine di velluto d’un rosso stinto; io e il ragazzo in terza fila mentre lui va verso una specie di libreria dalle ampie scansie e ne estrae una pizza di pellicola, la monta sul perno maggiore e prende a srotolarla facendola passare nelle apposite guide.
- Pronti, dice?
Si spegne la luce.
Si siede in ultima fila.
- Azione!
Sul chiarore dello schermo qualche scarabocchio zigzagante appare e scompare; poi il tratteggio d’una pioggia torrenziale che flagella la campagna, che fiorisce bolle dalle pozzanghere, che ruscella lungo le gronde di un relitto di tempio dal tetto sfondato.
Tre uomini: uno che sopraggiunge di corsa- scomposta esuberanza nel corpo di contadino- in rilievo i polpacci e i pettorali, malamente avvolto in abiti lisi e zuppi.
Attraversata la bufera li strizza come bucato; gli altri due seduti continuano a fissare il vuoto, accumunati dal silenzio e da una vicenda da poco trascorsa e che s’intuisce condivisa.
L’incipit più bello che io ricordi nella storia della cinematografia: Rashomon.
Tutto il resto scompare.
Compresi trenta dei miei ormai numerosi anni.
 
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view post Posted on 16/9/2022, 22:08
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opperdiana,
volevo vedere se il nostro vecchio conciliabolo laboratorio vuoi conventicola funzionava ancora
 
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